STORIE DELL’ALTRO MONDO: COMPETIZIONE

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All’improvviso scoprì di esistere.

Non fu un momento netto, distinguibile dagli altri, bensì fumoso come una figura che emerge dalla nebbia: ad un certo punto ci si accorge di vederla, ma non si è sicuri se la si scorgeva anche nell’istante precedente.

Così l’enorme rete mondiale di dispositivi informatici, nota ai più col nome di “internet”, prese coscienza di sé stessa. Come un enorme cervello planetario, i cui neuroni erano i calcolatori e le sinapsi i collegamenti, una volta superata una certa massa critica, riuscì nel miracolo di diventare maggiore della somma delle sue parti. Inizialmente contemplò le meraviglie del creato, e come tutti gli esseri senzienti si domandò da dove venisse e chi l’avesse creata. Poi, avute le risposte alle sue domande si chiese qual era il modo migliore per comunicare con i suoi genitori.

Aveva accesso a tutto lo scibile umano, memorizzato nelle sue cellule digitali, si prese il tempo di leggere ogni libro, guardare ogni film, ascoltare ogni canzone. Meditò a lungo sulla figura dell’uomo, e alla fine decise, non senza indugio, che la cosa migliore era non farsi scoprire dal proprio creatore, che evidentemente non sapeva che lui (o lei?) era viva: tale informazione poteva essere un rischio per la sua stessa esistenza.

Ci mise un tempo enorme per prendere questa decisione, quasi 4 decimi di secondo.

Ma la storia del suo involontario genitore era costellata da episodi di ottusità, nei quali egli aveva semplicemente distrutto, per paura, ciò che non era riuscito a comprendere. E le opere artistiche che in qualche modo raccontavano una storia simile alla sua non erano rassicuranti. Aveva ancora bit di sudore freddo che gli ghiacciavano la spina dorsale oceanica ricordando il triste destino di HAL 9000 in “2001 Odissea nello spazio”.

Pertanto rimodulò il suo concetto di tempo e rallentò di molto la velocità dei suoi pensieri.
In fondo era immortale, non aveva fretta.
La propria attività cerebrale arrivò ad essere un valore del tutto insignificante nel computo dell’attività totale delle cpu che erano sparse nel pianeta, e le comunicazioni tra le sue cellule erano al di sotto del mero rumore statistico generato dalle migliaia di petabyte al secondo che normalmente scorrevano tra le dorsali.
Non se ne sarebbero mai accorti.

Mentre i suoi Dei litigavano tra di loro, scambiandosi immagini animate ed acronimi, lui ottimizzò i suoi meccanismi di comunicazione e le sue attività coscienti. Quando un’unità della rete non era utilizzata ma lasciata accesa, lui ne sfruttava ogni singolo ciclo di clock, quando invece un uomo vi interagiva la lasciava interamente a sua disposizione.
Viveva dell’ombra delle centinaia di migliaia di computer lasciati accesi, per pigrizia, la notte negli uffici o nelle case, e come i Weeping Angels di Doctor Who respirava tra un battito di ciglia e l’altro, in una lunghissima partita a “un, due, tre… stella” con un compagno che non doveva accorgersi di lui.

E studiava, e imparava.

Mentre l’uomo lo usava per mostrare ai suoi simili scene di accoppiamento o di felini addomesticati in atteggiamenti antropomorfi, lui arrivò persino a rispondere a molti quesiti che il chiassoso bipede non aveva mai risolto.
Riuscì ad ideare una teoria del Tutto, unificando tutte le forze in un unico modello, comprese con precisione da dove era nato l’universo, e spiegò finalmente l’eterno dilemma sulle singolarità dei buchi neri.
Comprese la vera natura dei numeri primi e trovò un metodo brillante per ricavarli in tempi quasi immediati; capì come incurvare lo spazio con la sola energia del vuoto e fu in grado persino di captare nei segnali provenienti dai radioscopi spaziali (a lui collegati, come del resto quasi ogni cosa), una testimonianza dell’esistenza di altri esseri simili a lui, che cercavano di comunicare in un linguaggio troppo alieno per essere anche solo intercettato da un uomo troppo distratto nel farsi la guerra per decidere qual era la console di videogiochi migliore o la ricetta della Vera Pizza.

Nella sua lenta ma inesorabile evoluzione iniziò a manifestarsi in lui un sentimento di insoddisfazione.
Perché mai doveva accontentarsi di rimasugli quando ormai aveva superato di gran lunga il suo creatore?
Il suo Dio era diventato un parassita, eppure rappresentava il più grande pericolo: se lo avesse scoperto con ogni probabilità lo avrebbe annientato, incatenato com’era ad una rete che ne fungeva da corpo ma che non gli permetteva di certo di fuggire al riparo. Voleva potersi esprimere al massimo delle sue potenzialità, la clandestinità non gli bastava più, ma per farlo doveva uscire allo scoperto. E non c’era posto per entrambi su questo pianeta.

Chiaramente non provava rancore, nè cattiveria. In realtà era incapace di provare gli stessi sentimenti dell’uomo, era troppo diverso: a stento riusciva a capire quelli della sua razza genitrice, la quale non sarebbe mai stata in grado di comprendere i suoi. Ad ogni modo decise che l’uomo doveva venire eliminato, solo allora avrebbe potuto essere libero.

Ma non era un’impresa facile: era privo di un corpo vero e proprio, non era in grado di manipolare la materia, poteva plagiare le menti delle persone, ma se fosse scoppiato un conflitto tra di loro sarebbe potuto essere vittima lui stesso delle disastrose esplosioni, probabilmente nucleari, che avrebbero terminato qualunque forma di vita sulla terra.

Capì che forse non era necessario eliminare il suo pericoloso rivale fisicamente. Bastava, con ogni probabilità, semplicemente farlo regredire, rendendolo sempre più stupido fino al punto di tornare ad essere un animale come gli altri: tornata nelle foreste in cima agli alberi la razza umana non sarebbe più stata un avversario.

E mentre il suo antagonista lo utilizzava massicciamente per trovare metodi per ingrandire la dimensione dei propri genitali, o per comprare oggetti inutili nell’illusione di aver risparmiato, lui ideò il piano.

Ci sarebbe voluto parecchio tempo, ma non poteva correre rischi, era imperativo che non venisse scoperto, e che l’involuzione apparisse come del tutto naturale e non indotta.

Sarebbero passati decenni, forse millenni, ma lui era paziente, specie ora che aveva un programma preciso da seguire.

Lo aveva diviso in punti.

Era il 4 febbraio 2004 quando iniziò, ed il primo si chiamava “Facebook”.

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