IL LATO UMANO DELL’INNOVAZIONE: ORGANIZZAZIONI SENZA PAURA

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ORGANIZZAZIONI SENZA PAURA, PERCHÉ?

Il tema delle della paura nelle organizzazioni è diventato un tema strategico che si è trasformato in un’area di intervento vera e propria.
Ad oggi abbiamo capito che è un tema di management che, se affrontato in un certo modo, porta a risultati importantissimi.  Se non considerato può presentare dei costi inimmaginabili.

Sono almeno quattro le buone ragioni per cui è ora di prendere in mano la situazione:

    1. È saturo il conto economico delle aziende le cui persone non fanno domande, non fanno proposte innovative, non esprimono disaccordo quando la strada si rivela palesemente sbagliata. Tutti zitti. La paura produce quella che Amy Edmondson, autrice di “The Fearless Organization”, chiama “epidemia del silenzio”, che tradotto vuol dire “chi me lo fa fare di parlare?”.
    2. Non ne possono più i capi perché costretti a mostrarsi sicuri di sé in ogni circostanza, a fare la parte di chi ha sempre una risposta, chiamati continuamente a prendere decisioni perché così si fa in una organizzazione gerarchica. C’è una gran voglia di cambiamento e di poter finalmente dire “non lo so, proviamoci insieme, miglioriamo stata facendo”.
    3. Sono sature le persone che non possono fare errori, perché la nostra è l’epoca della velocità e delle situazioni sempre nuove, ma se provi e poi sbagli non puoi dirlo, devi nascondere l’errore sotto il tappeto, e questo non aiuta nessuno a star bene.
    4. Sono saturi i clienti perché paura dopo paura i tempi si allungano, i prodotti e i servizi non si innovano e non ne beneficia la qualità. Certo, quando il mondo era stabile e diviso tra decisori e controllori da una parte e esecutori dall’altra, si ricorreva alla paura per far lavorare di più questi ultimi, ma allora non c’era bisogno dell’intelligenza di tutti, c’era bisogno di esecutori, appunto.

Ma oggi? Oggi si riesce veramente a fare a meno dell’intelligenza di tutti?
La paura serve come segno d’allerta di fronte ai pericoli e nel caso in cui non si riveli un blocco per l’azione. Le neuroscienze spiegano che quando la paura supera il coraggio si paralizzano il pensiero, l’apprendimento e la collaborazione. In altre parole: stress. L’avrai provata questa sensazione!
Quando invece dell’azione sei protagonista o partecipi, allora stai – stiamo – imparando e  si collabora, lavorando al meglio.

Quindi sì, organizzazioni senza paura è un tema:

  • economico,
  • culturale,
  • intimo.

C’è forse qualcosa di più strategico di questi tre fattori?

ORGANIZZAZIONI SENZA PAURA: PERCHÉ FINO AD OGGI QUESTO TEMA È STATO IGNORATO

Un motivo lo identifico facilmente. La maggior parte dei training di leadership sono sempre andati a toccare le competenze individuali, mentre la sicurezza psicologica è una dinamica di team, migliorarla necessita di interventi a livello di gruppo.

Il cervello è addestrato per tenerti alla larga dai problemi. Però, se lo hai allenato a riconoscere il vantaggio nel portare (un certo tipo di) problemi all’interno del team, allora la via è spianata e parlare di errori e insicurezze è un plus.

Ecco perché influenzare e cambiare le dinamiche di gruppo è una questione di leadership diffusa all’interno dell’intera organizzazione e richiede pratiche sia personali che di team.

C’è della complessità, ma parlo – di fatto – di muscoli da allenare ogni giorno nelle organizzazioni, così come si tengono in esercizio altre competenze.

CHI SI DEVE OCCUPARE DELLA SICUREZZA PSICOLOGICA NELLE ORGANIZZAZIONI E COME

La sicurezza psicologica è, come già sottolineato, un “prodotto” di gruppo, il risultato di situazioni concrete, non si può delegare la responsabilità ad altri, è di tutti – tua, mia, nostra ogni qualvolta coordiniamo un’attività.

Manager e leader sono al primo posto perché hanno la possibilità di far nascere questo prerequisito. Certo, deve in qualche modo cambiare il comportamento “classico”, sono figure spesso poco inclini ad accettare critiche o a tollerare gli errori degli altri. Quante volte ti sarà capitato di sentire un manager parlare tutto il tempo non lasciando spazio a nessun’altra voce durante una riunione? Si tratta di prassi vecchie, che alla luce di problemi nuovi non aiutano a risolverli.

Come si può fare? Alcuni interventi sono semplici e alla portata di ogni organizzazione, anche della tua. Come, ad esempio, quella di creare uno “spazio” dove ogni persona possa contribuire, sentirsi alla pari e esprimersi liberamente. In questo modo puoi mettere in atto non solo un’operazione di democrazia, ma a tutti gli effetti proprio quell’azione di leadership allargata e diffusa.

Oggi sono le aziende stesse a chiedere alle persone di rendersi responsabili e autonome, ma ai fatti pratici non danno nessuna delega e nessuno strumento per consentire a ciascuno di assumersi la responsabilità o agire in autonomia. La sicurezza psicologica diventa in questo contesto uno strumento ancora più fondamentale che va nella direzione dell’agilità e non richiede di imprimere cambiamenti all’organizzazione dell’azienda. Ciò che richiede, invece, è di agevolare la presa di decisioni, di indirizzare l’imbocco di una strada.

Un esempio facile da replicare? Modifica la modalità di gestione delle riunioni. Quando l’incontro è indetto perché c’è una matassa da sbrogliare, presentati senza una proposta risolutiva e avvia una conversazione che stimoli il contributo di tutti. Potresti accorgerti che la soluzione arriva da chi meno te lo aspetti.

I singoli individui hanno le loro responsabilità, così come ce l’ha l’azienda, che è quella di creare lo spazio per lavorare in questa direzione. Manager e persone devono imparare a utilizzarlo.

ERRORI: QUALCOSA DA ELIMINARE O ELEMENTO UTILE?

Puoi sostenere che quando fai le cose è sempre “buona la prima”?
Alzi la mano chi ha imparato a scrivere senza sbagliare.

Nel lavoro questo è vero oltremodo. Ogni giorno ci sono decisioni da prendere, anche molto piccole che però, nel quadro d’insieme, fanno la differenza.
Tradotto, significa la necessità di persone che mentre lavorano sono capaci di osservare, pensare, farsi domande, assumere l’iniziativa, collaborare.

In un contesto del genere, considerare l’assenza di errori il criterio di una buona prestazione è un vero e proprio monumento alla diseconomia, oltre che anacronistico.

Sto parlando di errori, ed è bene anche chiarire che non sono tutti uguali, ci sono quelli da evitare e che, se accadono, vanno sanzionati.
È il caso, ad esempio, di quando è ben chiaro quello che si deve fare e come, ma non lo fai; come succede se passi con il semaforo rosso, il tuo sbaglio non è di certo il benvenuto, anzi, e spero vivamente ci sia un vigile pronto a multarti.

Ma come la mettiamo quando c’è qualcosa che esula da te, e che magari ti cambia le carte in tavola da un momento all’altro? Tipo: scoppia la pandemia e cosa si fa? Procedi imperturbabile come se niente fosse accaduto e continui a fare le cose come le hai sempre fatte? Se cerchi strade nuove è quasi matematico all’inizio cadere in fallo. Ma lo puoi veramente chiamare un errore?
Il passo falso, così inteso, è più che altro l’esito di una sperimentazione da cui si può solo imparare per poi procedere correttamente.

Pandemia a parte. Come la metti quando cerchi un modo più efficiente di lavorare perché non sei soddisfatto? Se vige il criterio del “non sbagliare mai”, quanta voglia avrai di provarci?

Nella storia dell’umanità gli errori hanno da sempre favorito apprendimento e collaborazione. Parlare di errore diventa il modo migliore per creare fiducia, al di là di tante parole vuote su questo tema.

IL TEAM BUILDING NON BASTA PIÙ SERVE SCHIETTEZZA PROFESSIONALE

Schiettezza come nuova skill dei manager di domani? La schiettezza è un’esigenza crescente delle persone e delle organizzazioni, un’esigenza nuova alla quale non c’è l’abitudine. Piuttosto, la prassi è contraria: entrare in ufficio e calarsi in una parte indossando una maschera. Una volta varcata la soglia il ruolo è quello del bravo professionista o del brillante manager, insomma, tutto ciò che per l’azienda è apprezzabile.

La schiettezza, invece, significa autenticità e assoluta franchezza e, siccome non siamo abituati a viverla, fa paura. Lo avrai toccato con mano anche tu, nelle organizzazioni c’è tutto tranne che la possibilità di parlare apertamente della paura.
L’essere schietti è vissuto come un qualcosa di pericoloso che può esporre a dei rischi. Certo, ma come lo percepisco io, lo sentirai anche tu il bisogno di essere te stesso e avere l’opportunità di gettarla, quella maschera.

Un esercizio per comprenderla al meglio, e che puoi fare tranquillamente, è quello di aiutare le persone a coglierne i benefici.

 

 

Schiettezza = Semplicità
Rifletti, qual è l’alternativa? Non dirsi le cose e continuare a girarci intorno? Parlare di  fuffa? O è più efficace e umano trovare alchimie nella collaborazione.

Schiettezza = Velocità
Quando imbocchi strade sbagliate e commetti degli sbagli puoi: fare in modo di dirlo apertamente e di rimediare, oppure accordarti e startene zitto, in questo caso però perdi tempo, soldi, energie e voglia di fare.

Schiettezza = Benessere
Pensa a quante persone stanno male nei luoghi di lavoro perché non possono dire quello che pensano. Potranno mai essere – come si dice in inglese – engaged, coinvolte?

Schiettezza = Fiducia
In poche parole: la fiducia è la base per il funzionamento del team.

PERCHÉ C’È LA PAURA DI PARLARE

Torniamo ancora una volta a quel meraviglioso organo che è il cervello. Di fronte a una decisione da prendere fa una serie di calcoli e si chiede: qual è il costo più basso? Una volta identificato, spinge le azioni in quella direzione.

In Italia, in particolare, viene percepito come molto alto il costo di contraddire una persona, perché si tende ad associare il disaccordo al conflitto, ma la realtà è diversa, il primo non diventa in automatico il secondo. Anzi, esprimere una opinione diversa o opposta è di fatto un’opportunità per arricchire un argomento e andare a scovare una soluzione più complessa.

E qui entra in gioco il congegno intellettivo di cui sopra che, programmato per una economica gestione delle relazioni sociali, identifica per primo l’alto costo del rischio relazionale, che di fatto domina. È per questo motivo che è così difficile e non si riesce a lasciare spazio alla schiettezza.

Intendiamoci, non vuol dire che da domani puoi entrare in un meeting di lavoro e vomitare tutte le tue ansie professionali o le preoccupazioni personali. Ma è: ho un’informazione che reputo importante, ma va a cozzare con le affermazioni espresse da qualcun altro; la esprimo o la tengo nascosta durante la riunione?
Normalmente non dovrei nemmeno pensarci, dovrei dirla e basta, ma è proprio qui che scatta l’input decisionale quasi automatico che suggerisce: “No, non dire nulla perché Tizio potrebbe prendersela, Caio usarla contro di me, Sempronio denigrarmi”. Il conto finale, dunque, recita: “Taci, ti costa di meno”.

LA CONTABILITÀ DEL SILENZIO

Da dove cominciare per invertire il trend?

Punto primo: fare un’analisi più adeguata del costo del silenzio, a trovare il coraggio di parlarne.
Al giorno d’oggi in nessun campo esistono soluzioni preconfezionate sugli scaffali. È chiara la necessità di espressione delle voci e del contributo di tutti quanti i membri di un’organizzazione per costruire e arricchire una determinata soluzione. Senza la possibilità di partorire un’idea valida si attesta sì e no al 10%; a questa percentuale manca la parte del silenzio, quel valore aggiunto che devi allenarti a far emergere.

Punto Secondo: stimolare ciascuno nell’espressione dei rispettivi punti di vista.
Conoscerai molto bene i rischi del parlare e la convenienza del tacere, ma proprio perché finora è stata questa l’aria che hai respirato, puoi comprendere cosa apportano i vantaggi. Laddove si comincia a sperimentare il conseguimento di comportamenti che preservino la sicurezza psicologica, si percepisce immediatamente la convenienza nell’assumersi un rischio relazionale: migliora la trasparenza nella relazione, accorcia i tempi, fa evitare degli errori etc.
Una contabilità tutta da scoprire e, ti garantisco, una veloce scoperta dell’opportunità.

Terzo e ultimo, ma non meno importante: ringraziare per questo.
Offri a chi esprime il proprio punto di vista un segno di attenzione e di riconoscimento per il fatto di aver contribuito e condiviso i pensieri. rendine esplicita l’utilità. Grazie all’opinione che viene espressa è possibile che anche a te venga un’idea, e a qualcun altro potrebbe sorgerne un’altra ancora, e così via.

Per concludere. I risultati da raggiungere sono sempre più sfidanti e le vecchie modalità d’azione sempre meno efficaci.
Non tenere le persone in panchina, fai squadra e dai attenzione a tutti!

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